Concorso internazionale di narrativa “Marcella e Oscar Sinigaglia” L’eredità di papà - di Giovanna Angelita Chersola - foto

Non posso pensare al Carnevale senza risentire il gusto unico delle fritole e dei crostoli che mio padre preparava in quell’occasione. Le fritole, soprattutto, erano la sua specialità e noi ragazzi le mangiavamo con una sorta di quasi religiosa avidità, perché sapevamo che quei dolci rappresentavano qualcosa di prezioso per nostro padre, un rituale che gli permetteva di ricomporre qualche frammento di un passato che aveva ormai il sapore del sogno e dell’irrealtà. Come quando preparava le uova pasquali, colorandole con i colori all’anilina e distribuendole gioiosamente, sempre, ogni Pasqua, perché condividessimo con lui quel momento che poteva forse riportarlo per un’ora, per un giorno a tradizioni familiari perennemente intessute nell’animo. Parlava del pane fatto da sua madre e segnato dal taglio in croce prima di essere portato a benedire nella chiesa di San Lorenzo del Pasenatico dove lui era nato ed era stato battezzato, o della zolletta di zucchero con una goccia di grappa (!) che veniva data a loro bambini nelle fredde mattine d’inverno prima di andare a scuola. Parlava dello zabajone con dodici uova che la sua famiglia si concedeva nelle grandi occasioni e ci preparava le più modeste fette di pane bagnate nel latte e nell’uovo sbattuto (uno solo, però...), quindi fritte e passate nello zucchero. Chissà che nome aveva quella prelibatezza a poco prezzo! Così siamo cresciuti fra tocio e tecia, calandraca e ovi con la zivola, crauti e strucolo, gnocchi con le prugne e minestra d’orzo e patate, in un’allegra mescolanza, e nessuno crederebbe ad una pastasciutta condita con cipolla imbiondita nell’olio, con aggiunta di zucchero e pangrattato: una vera delizia che però non ho mai osato riproporre ai miei, pur conservandone un ricordo nostalgico. Come i ricordi e le nostalgie della sua terra d’Istria, che mio padre ha tenuto tutta la vita dentro di sé, con una sorta di ostinato pudore ed in una modestissima valigia di fibra, di piccole dimensioni, che conteneva quello che da ultimo aveva portato con sé: cartoline in bianco e nero, l’Arena, l’Arsenale, l’Arco dei Sergi, la fotografia dell’attrice Pola Negri (forse perché gli ricordava il nome della città dove era cresciuto dopo che la Spagnola, verso la fine della prima guerra mondiale, gli aveva portato via mamma, fratellini, zii, cugini, lasciando lui a badare - dopo la fine della scuola - al fratellino superstite e alla casa, mentre il padre lavorava in Arsenale). Ecco perché la cucina non aveva segreti per lui e anche mia madre, ottima cuoca a sua volta, si lasciava facilmente convincere a cedergli i fornelli perché potesse ricreare lo spaciapan o le trippe o fare i ciccioli e le frizze col lardo, tutte tentazioni quasi proibite per i più che sobri liguri... Si era allontanato forzatamente da abitudini e luoghi cari perché era entrato in Marina e poi si era sposato, ma “da casa” non era in realtà mai partito e le sue ninne-nanne e le sue canzoni erano quelle di “allora”, quando aveva messo in valigia l’orologio d’oro del padre, una fotografia - una sola - dei suoi genitori, ed era riuscito a portare via, oltre ad un servizio di piatti in porcellana bianca molto pesante, anche la pendola di famiglia, che ogni sera caricava e ogni domenica spolverara accuratamente, pendola che ci ha seguiti in tutti gli spostamenti e traslochi, occupando sempre il posto più alto nelle cure di mio padre. I piatti se ne sono andati quasi tutti: uno alla volta, un po’ incrinandosi, un po’ scivolando di mano; forse ne sarà rimasto uno a testimonianza di come si facevano bene le cose in passato. Ed è rimasto il libriccino delle preghiere di bambino, rigorosamente in tedesco e rigorosamente stampato in gotico perché lui era nato quando si cantava “Serbi Iddio l’austriaco Regno”, solo che lui cantava l’inno in tedesco. Sempre sotto l’austriaco Regno mio padre e i suoi familiari - perché italiani - erano stati mandati “in esilio” temporaneamente allo scoppio della prima guerra mondiale a Oberhallbrunn, un paesino vicino a Graz, in Austria, dove avevano forzosamente condiviso l’abitazione di un alquanto recalcitrante contadino del luogo, sperimentando la prima di una serie di emarginazioni a venire. Unico ricordo prezioso di quel periodo, una dolcissima Madonna col Bambino, incorniciata con raffinato intaglio dorato che ha continuato a sorriderci e a vegliare su di noi. E sorridente era sempre mio padre quando accennava in italiano una deliziosa filastrocca imparata all’asilo: “Andiamo col mattino, andiamo a lavorar, il raggio porporino ci viene a ridestar...” Su quell’aria i miei fratelli ed io ci siamo incamminati a nostra volta, incoraggiandoci a vicenda ad affrontare quelle che allora erano per noi levatacce e ancora adesso mi interrogo sul seguito della canzoncina: ci sarà qualcuno che la ricorda? Quello che mi viene in mente è altamente improbabile, perché privo di nesso (oppure no?): “Ci porta in mezzo ai fiori, la vita vuol goder...” E poi? Anche mio figlio smetteva di recalcitrare quando, con voce flautata, gli ripetevo la canzoncina del nonno per farlo saltare giù dal letto e andare a scuola. Cucina, canzoni, cartoline... solo questo? Sì, solo questo, perché per tutta la sua lunga vita, non scevra di altri dolorosi distacchi, mio padre non ha mai voluto parlare di “quello”, non ha mai voluto “tornare”, forse perché, dentro di sé, non era mai davvero partito. Neppure quell’ultima volta quando, ancora in guerra - oltre sessant’anni fa, ormai - aveva lasciato le amate sponde di quella parte dell’Adriatico imbarcandosi fortunosamente su un piroscafo che lasciava Spalato. Forse allora avrà ripensato alle serene gite che faceva, fanciullo, fino al Canale di Leme, ai tuffi gioiosi, all’allegria, al suo coraggioso salvataggio di un compagno che stava per annegare e quasi lo trascinava con sé. Dopo un lunghissimo periodo di dolorosa “rimozione”, solo negli anni Settanta siamo riusciti a persuadere mio padre, anzi a forzarlo, a rivedere il suo “paese dell’anima” perché ci sembrava giusto che ne avesse una nuova immagine e riuscisse a fare pace col passato. Troppo nuova davvero, però: il gruppo di case sparse nella campagna di San Lorenzo, Villa Chersoli, orgoglio della famiglia per la bella proprietà terriera che aveva dato nome al posto, mostrava il volto dimesso di dimore abitate ma non curate; la bellissima vera da pozzo del 1857, qua e là scalpellata, la catena mancante, la carrucola arrugginita. Impossibile ritrovare le tombe dei suoi Cari nel cimitero di Pola; impresa assurda cercare la scultura da lui fatta su uno scoglio della spiaggia di Val Cane: la Libertà librata, così com’era effigiata nella moneta da venti centesimi e la sua firma. Quanti l’avranno vista? Quanti avranno ammirato la maestria di quell’ignoto artista? Quanti l’avranno rispettata? Appena in Italia, con le cartoline dei monumenti di Pola cari al suo cuore, mio padre aveva fatto fare dei quadri da un pittore locale e l’Arena e l’Arco gli riportavano ogni giorno l’immagine di un bene perduto, di un tessuto di affetti impreziositi dalla dolce cadenza del dialetto, ma anche dai ricordi di un’infanzia multilingue di cui risentiva nelle orecchie la melodia di una ninnananna materna: “Spavajmi, spavajmi moj golube bijéli...” (“Dormi, dormi, mio bianco colombo...”) Plurilingue ma italianissimo (per anni è stato anche interprete di tedesco, serbo-croato e sloveno), mio padre era estremamente fiero del suo cognome, perché esso era la testimonianza perenne del senso effettivo del suo appartenere all’Histria Terra nonostante tutto, nonostante tutti. Hanno potuto cambiare nomi e toponimi, ma chiamarci Chersola, dall’isola che è orograficamente la continuazione della catena carsica della penisola istriana, ha permesso a tutti noi di provare intimamente un “continuum” storico di appartenenza che si è impresso nei nostri cuori e nelle nostre menti: la più cara eredità che nostro padre potesse lasciarci.

Dal numero 3248

del 28/04/2004

pagina 9