Sul fronte dell'Erzegovina Battaglia sopra Mostar - Antonio Vinaccia - foto

foto Sedicesima parte Il comando di battaglione era state sistemato vicino al passo ed io e Merafina con le staffette avevamo fatto le tende nei pressi di quella del maggiore, mentre il suo attendente si era costruito un rifugio, quasi un canile, con un solo telo che aveva attaccato al la tenda del comandante. Per non stare a contatto col terreno umido mettemmo sotto i nostri ripari dei rami di abete a mo' di lettiera. La vita lassù era molto dura per il freddo e per la mancanza d'acqua. il comando, il posto di medicazione, le riservette delle munizioni erano stati posti sotto un ciglione, subito prima di giungere al passo. il rancio caldo veniva portato coi muli, una volta al giorno, dalla base lasciata vicino al fiume. I cannonciotti a brodo giungevano lasse larghi come una mano. Per vincere il freddo furono accesi dei fuochi con grossi tronchi di abete e la neve, per avere acqua, veniva fatta sciogliere nei recipienti e nelle cassette di lamiera delle bombe a mano. Nessuno si azzardava a togliersi il cappotto nemmeno sotto la tenda e ben presto ci riempimmo di pidocchi e le barbe venivano lasciate crescere senza poter intervenire. Rappresentava una pena, per la rigida temperatura, anche soddisfare ai bisogni corporali. Nella nostra tenda fu sistemato un telefono a pile che era collegato con la base ed il plotone sulla quota. La mattina del 18, alcuni reparti fecero una puntata a nord e dal passo potemmo vedere sulla cima completamente innevata del Lupoglav una miriade di puntini neri che si muovevano, come formiche, aggirando la vetta. Erano i partigiani che si spostavano. La partenza dal passo era stata decisa per il giorno dopo, San Giuseppe. La cosa ci preoccupava perchè si trattava di inoltrarsi nella sottostante e stretta vallata delimitate da scoscese pendici e motto adatta al le imboscate. Verso l'imbrunire, giunse un gruppo di cetnici con barbe e capelli lunghissimi, alla nazarena. Cantavano un inno e seguivano l'alfiere recante una grande bandiera nera. il loro comandante, in uniforme di ufficiale dell'esercito jugoslavo, ricevette ordini dal colonnello e condusse i suoi uomini senza divisa in un pun-to dello schieramento. Dissero che venivano da Trebinje, ai confini del Montenegro. Avevano fatto voto di lasciarsi crescere barbe e capelli find a quando non fosse tornato a regnare in Jugoslavia il giovane re Pietro II. L'arrivo dei cetnici sulla montagna nell'incerta luce del crepuscolo, il loro aspetto cosi tenebroso e nello stesso tempo fiero, era una vision irreale, d'altri tempi. Sembravano più dei congiurati che dei combattenti di questo secolo. Alle due del mattino di San Giuseppe, udimmo spari del-le nostre armi, raffiche prolungate di mitragliatrice, esplosioni di bombe a mano. Poi fu l'inferno. Ci gettammo fuori dalle tende e sentimmo subito sibilare sulle nostre teste le pallottole. Il maggiore mi diede concitatamente or-dine di accompagnare i cetnici nelle postazioni della seconda compagnia. Sapevo dove essi erano riuniti e fra gli scoppi e i lampi del le esplosioni giunsi da loro. Con le poche parole in croato che sapevo li invitai a seguirmi dicendo di far presto. Indugiavano ed alle mie sollecitazioni qualcuno rispondeva: sono vecchio, non cammino bene. Li condussi a destinazione e tornai alla tenda del comando. Non c'era più nessuno. Intuii che il maggiore e gli altri si fossero diretti, attraverso l'abetina, verso le postazioni della cresta. Cominciai a salire da solo fra le tende. Tutta la cima del monte era un bagliore. Per gli scoppi, sentivo ballare il terreno sotto i piedi, mentre colpi di mortaio arrivavano qua e le spezzando i rami degli abeti. Per il freddo notturno e la paura ero stato colto da un tremito convulso che in breve cessò. Camminavo in salita su un terreno pieno di sassi e buche. Sentivo fra uno scroscio e l'altro delle armi automatiche le grida degli assalitori che lanciavano hurrà e le invocazioni ed i gemiti dei nostri feriti. Giunsi dietro le postazioni del crinale per unirmi al gruppo che aveva seguito il maggiore, ma le ricerche in quel caos furono inutili. Ad un certo momento sentii vicinissma la voce di Tritonj che gridava: la sipe! la sipè istintivamente mi gettai a terra ed a pochi passi da me scoppiò una bomba a mano che era stata lanciata contro la postazione del sergente ma aveva proseguito la traiettoria. Ricevetti un colpo alla gamba sinistra, una bastonata, e rotolando andai dietro la cresta della quota. Passai una mano sul punto colpito ed alla luce dei razzi bianchi che la terra compagnia lanciava in continuazione, cercai di scorgere se fosse sporca di sangue. Mi trovai alla sinistra del tenente Loreto Venditti della quarta e rimasi vicino a lui che era solo. Anche l'ufficiale era in ginocchio e guardavamo in avanti, verso il tratto scosceso dal quale provenivano gli attaccanti. Notammo che sulle cime degli abeti che raggiungevano e spesso superavano in altezza le nostre postazioni, si accendevano fiammate di spari. Evidentemente alcuni partigiani che risalivano dal basso, erano montati sugli alberi per combattere. Sapemmo poi che al primo attacco essi avevano occupato di sorpresa le postazioni dei cannoni, erano riusciti a rovesciare i pezzi e si erano incuneati dietro le prime difese della seconda compagnia uccidendo a colpi di bombe a mano i difensori. Ora il combattimento avveniva sulla cresta fra le postazioni occupate dal nemico e quelle ancora difese dai soldati, ad un distanza motto ravvicinata e sulla stessa Linea. Stavo per superare la cresta ed entrare strisciando in una postazione per segnalare la presenza dei tiratori sugli alberi, quando il tenente lanciò un grido: Mamma! Sono morto! E subito dopo si abbatte in avanti. Lo tirai su per scorgere dove era stato colpito ma ció fu impossibile. Preso dal panico, non sapevo cosa fare, se lasciarlo li ed andarmene o rimanere. Ero solo vicino all'ufficiale. Sapevo che l'ordine, in casi simili, era quello di lasciare sul posto i feriti per non distogliere i combattenti dal loro compito. il tenente sembró rinvenire, lo tirai nuovamente su perchè aveva la faccia contro il terreno. Comincie a lamentarsi e mi diceva con voce fievole: portami via, portami via. Indugiavo. Ogni tanto vedevo nel buffo che dalle postazioni vicine ombre si precipitavano a rotta di collo giù per la discesa dalla parte del passo. Le urla degli attaccanti continuavano e nelle pause del combattimento percepivo lamenti ed invocazioni strazianti. Voltandomi cercavo inutilmente di scorgere i portaferiti. Dietro le insistenze del tenente mi decisi a portarlo più in basso ove avrei potuto trovare qualcuno che si occupasse di lui. Con fatica lo misi in piedi e mi superava in altezza, lo presi sottobraccio ed iniziai la discesa usando il fucile come bastone per saggiare il terreno. L'ufficiale si lamentava, barcollava e sveniva, mi trascinava giù cadendo, oppure ere io che scivolando me lo tiravo addosso, in terra. Dovetti rimetterlo in piedi più volte con fatica. Finalmente, quasi in fondo alla discesa, fra i bagliori, vidi due portaferiti muniti di barella e consegnai loro il tenente Venditti. Durante la discesa, scorsi nell'abetina numerosi cetnici che si nascondevano qua e le. Li riconoscevo perché erano senza elmetto e non indossavano una uniforme. La loro presenza nel bosco, al buio mi metteva in guardia perché temevo fossero partigiani infiltratisi nello schieramento. Antonio Vinaccia

Dal numero 2619

del 16/12/1989

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