Ciò che visse Maria Pasquinelli Marasma a Spalato dopo l'8.1X. 1943 - Antonio Vinaccia - foto

foto Terza parte Le vicende della guerra, che l'Italia combatteva (e che Maria Pasquinelli viveva da vicino), incalzavano e si rivelavano sempre più catastrofiche. Durante il corso del 1943 giunsero in Dalmazia le notizie della disastrosa ritirata dell'armata italiana in Russia, lo sbarco americano in Marocco e Algeria, la perdita definitiva della Libia e la resa italo-tedesca nell'Africa settentrionale, lo sbarco alleato in Sicittà, la caduta del governo Mussolini ed il conseguente scioglimento del partito, ed infine, improvvisa, scioccante, l'ultima notizie: quella della firma dell'armistizio fra l'Italia e gli alleati. Le truppe italiane in Jugoslavia, che per oltre due anni avevano aspramente combattuto ovunque una insidiosa, terribile, guerra, al momento dell'armistizio si trovavano dislocate sulla fascia costiera dalmata. A Spalato, il comando del XVIII corpo d'armata aveva iniziato da poco il trasferimento a Zara e molti reparti dipendenti erano stati sorpresi dalla notizia al momento della partenza ed erano rimasti a Spalato. In città, nelle ore seguenti la comunicazione dell'armistizio affluirono anche alcuni reparti della divisione «Bergamo»: il 26o reggimento fanteria quasi al completo, mentre altri reggimenti della stessa divisione furono subito bloccati e catturati dai tedeschi a Sinj (25o reggimento fanteria) ed a Drnie (89' legione). In sostanza a Spalato si trovarono circa dieci dodici mila soldati di cui 400 ufficiali, con armamento al completo e magazzini viveri, vestiario e munizioni talmente forniti da meravigliare gli stessi militari le cui richieste, in passato, erano state spesso disattese con la scusa che mancava tutto. Assunse il comando della città il generale di divisione Emilio Becuzzi, comandante la divisione «Bergamo». Tre generali dipendevano da lui: i generali di Brigata Salvatore Pelligra, Angelo Policardi e Alfonso Cigala Fulgosi. L'armamento ed i materiali delle truppe italiane di Spalato rappresentavano una allettante preda sia per i tedeschi che avevano la loro base più vicina (30 km) a Sinj, sia per le formazioni partigiane di Tito che ormai stazionavano in gran numero sulle montagne vicine alla costa adriatica. Il generale Becuzzi ricevette dal comando della II' armata a Susak (gen. Robotti) l'ordine di prendere accordi con le formazioni partigiane per la difesa della città in vista di un eventuale attacco tedesco. E ciò si stava in parte realizzando perchè un battaglione nazista era già in viaggio da Sinj verso Spalato. Era stato impegnato e fermato da formazioni partigiane e da elementi italiani alla fortezza di Clissa. Il generale Becuzzi si mise in contatto anche col comando del corpo d'armata (generale Spigo) che si trovava a Zara, il quale confermò l'ordine già ricevuto. Il giorno 10 settembre, fra il tripudio di molti spalatini che fino ad allora erano stati apparentemente tranquilli, avvenne l'incontro fra i rappresentanti del comando supremo partigiano, giunti appositamente da Jajce, ed il generale Becuzzi. Erano presenti l'avvocato Ivo Lola Ribar, rappresentante di Tito, il generale Costantino Popovic e tre ufficiali alleati facenti parte della missione che si trovava da tempo presso il quartier generale partigiano. Fra questi era il futuro storico inglese F.W. Deakin che era stato paracadutato in Montenegro nel giugno '43. Dopo un accordo di massima, il generale Becuzzi volle avere l'autorizzazione dal comando del corpo d'armata su quanto era stato statoilito. Quando potè avere il contatto radio con Zara gli ordini erano del tutto cambiati ed il geA Spalato il dramma dell'8 settembre 1943 nerale Spigo ordinava la consegna del materiale militare italiano ai tedeschi non appena fossero giunti in città. Infatti, nel frattempo, era accaduto che a Zara i tedeschi avevano preso il sopravvento sugli italiani e ciò era noto al gen. Becuzzi perchè, prima del difficoltoso contatto radio avuto, egli si era recato in idrovolante da Spalato a Zara per parlare personalmente col suo superiore, ma appena l'apparecchio fu ammarato, riprese subito quota per Spalato perchè fu segnalata la presenza in città dei tedeschi. Le insistenze degli esponenti partigiani, degli ufficiali alleati ed anche di alcuni italiani perchè il generale continuasse le trattative per giungere ad una collaborazione italo-slava, furono inutili. Egli rispose che avrebbe obbedito all'ordine del suo diretto superiore anche se quell'ordine era palesemente dato sotto costrizione. In sostanza, non voleva assumersi responsabilità per iniziative autonome che, oggettivamente, dovevano essere prese. Allora a Spalato successe il caos. Entrarono in città numerosi partigiani, altri cittadini si armarono di loro iniziativa o perchè costretti. Le strade si pavesarono di bandiere rosse e gli spalatini si riversarono nelle vie. Ai soldati italiani, ormai sfiduciati, inebetiti e senza ordini ben precisi, veniva esplicitamente ingiunto dai partigiani o combattere contro i tedeschi unitamente a loro o consegnare le armi. Tutta l'organizzazione militare si sfasciò in poche ore anche per una sequela di ordini e contrordini contrastanti. Alcuni militari andarono con i partigiani a combattere contro i tedeschi bloccati a Clissa, moltissimi altri furo no singolarmente o collettivamente disarmati con la minaccia e rimasero in attesa degli eventi e si riunirono in due località spalatine della costa: Firule, a sud della città, e Spinut e Cappuccini, a nord, ai piedi del monte Mariano. La popolazione ed i militari sbandati si diedero, per alimentarsi, al saccheggio dei magazzini viveri che si trovavano vicino al porto. Intanto numerose volte al giorno giungevano dal mare sulla città, incontrastati, gli stukae e mitragliavano e bombardavano con estrema precisione tutto ciò che aveva importanza militare. Dopo un lancio di manifestini diretti ai soldati della divisione «Bergamo» in cui si invitavano i destinatari alla resa e soprattutto si imponeva di non consegnare le armi ai partigiani, il giorno 19, verso le ore 12, si ebbe un violento quanto improvviso bombardamento degli stukae sul campo italiano di Spinut e Cappuccini che provocò la morte per circa 300 soldati italiani ed altrettanti feriti. Soltanto il giorno 16 il generale Becuzzi si era deciso a sottoscrivere con i partigiani un patto da cui risultò che le armi ed il materiale militare — ormai già in preda ai partigiani — venivano ceduti spontaneamente agli uomini di Tito, mentre costoro si impegnavano a fornire il cibo agli italiani (militari e civili). Ciò non avvenne mai dove lo scrivente si trovava, ossia a Firule. I partigiani si impegnavano anche a richiedere agli alleati, ormai giunti in Puglia, i mezzi per il rimpatrio degli italiani. I partigiani, infine, assicuravano l'incolumità personale degli italiani divenuti amici «fatta eccezione per qualche elemento che sia da considerarsi un criminale di guerra». L'accordo recava la firma del generale Becuzzi, dell'avvocato Ribar, del generale Popovic, del maggiore inglere Deakin, del capitano inglese Burke, del capitano U.S.A. Benson. Antonio Vinaccia

Dal numero 2557

del 24/09/1988

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