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Didascalie:
Absidi nella Cattedrale di San Lorenzo a Traù (foto Nedo Fiorenti» per la mostra Architetture della Dalmazia del Centro di cultura giuliano-dalmata)
Absidi della chiesa romanica di San Grisogono a Zara (foto Nedo Fiorenti» per la mostra Architetture della Dalmazia del Centro di cultura giuliano-dalmata)
Continua ad essere soltanto un pio desiderio, il sapere se almeno qualcuno dei diversi esperti cui dobbiamo lo scempio degli attuali confini adriatici, abbia mai conosciuto, sia pure solo di nome, Niccolò Tommaseo. Avendo dettato, più o meno alla cieca, ì provvedimenti che — complici gli angloamericani — consentirono la rapina all'Italia di terre nostre, costoro devono aver atavicamente ignorato che l'autore del classico «Dizionario dei sinonimi», cioè del repertorio delle più sottili differenze stilistiche nella lingua italiana, era dalmata. Ogni sentimentalismo, ogni elemento culturale venne tenuto in non cale sul tavolo operatorio del mostruoso intervento chirurgico, essendo la cultura sintomo di civiltà. Già col trattato di Rapallo, l'arte subdola dei mercanteggiamenti aveva avuto, il 12 novembre 1920, il suo apogeo, tracciando quelle assurde frontiere delle quali si sarebbe vergognato il più sprovveduto studentello di geografia: il sottile tratto costiero da Mattuglie a Fiume, il ridicolo confine che spaccava in due una cappella presso l'Eneo, zigzagando tra Fiume e Susak, la riduzione di Zara ad un promiscuo etnico, ed altre iniquità.
Ma, in confronto con i trattati posteriori alla seconda guerra mondiale, quello di Rapallo è stato un monumento dì saggezza, considerato che l'Istria, il retroterra triestino, Fiume e tutta la Dalmazia sono diventate terre non italiane. Un arduo lavoro si è presentato — ed incomberà a lungo — su quanti sono preposti alla slavizzazione di quelle terre, ove ogni pietra, ogni zolla trasudano italianità. Ma pur distruggendo, sovvertendo, ogni pietra, ogni zolla, nessuna forza riuscirà a far tacere, nell'aria stessa, quella voce romano-veneta che è emanazione di secolare civiltà.
Ha la limpidità canora di un nome di donna italiana, quello di Zara, che dal tempo dei bizantini non fu mai chiamata diversamente. A Venezia, sulla facciata di S. Maria Zobenigo, è scolpita nel marmo la pianta di Zara, con quelle di Padova e di Roma. Non c'è viuzza della bella città dalmata, che non sia una calle veneziana; la più importante, la Calle Larga, sfociava in una piazza omonima alla vicentina Piazza dei Signori, e Piazza delle Erbe richiamava Verona. Non ci saremmo stupiti, a Zara, ad ogni svolta, di trovare un rio o di sentire il richiamo di un gondoliere.
All'italianissima Spalato, fu imposto il nome di Split, e gli angloamericani, correi nella rapina, hanno dovuto chiedersi il perché di questo nome, che nel loro linguaggio ha significato di spaccatura e lacerazione. E' scomparsa la sonorità che, in «Spalato», conserva il latino ex palatio, coincidente con la posteriore città vecchia, contenuta fra le mura del palazzo di Diocleziano, che da latina divenne italiana tanto che, nel Seminario spalatino si perfezionarono nella nostra lingua Ugo Foscolo ed il grande Tommaseo. La propaganda d'oltre confine, da decenni, accredita nomi deformati o rimpiazza malamente quegli storici. Nei ceti colti di ogni Paese, Ragusa continua ad essere
nota col suo nome italiano. E' necessario andare sul posto, constatare le angherie toponomastiche, per tentare di capire come Ragusa possa chiamarsi Dubrovnik e Ragusavecchia sia diventata Cavtat o Tsavtat. La geografia presenta omonimie significative: Ragusa, il capoluogo di provincia siciliano, per una facile etimologia è così chiamata perché «racchiusa» fra i monti, come racchiusa è la Ragusa dalmata da una artificiale corona di mura e torrioni, al pari di una turrita città toscana, miracolosamente trasferitasi sull'altra sponda. Entro i grandiosi bastioni, troviamo il fedele richiamo a qualche città veneta. Nel cortile del Palazzo del Rettore, con la tipica scalea, ravvisiamo quello famoso di Verona; e la medesima bellezza architettonica ha lo scalone nel cortile del Palazzo comunale di Traù. In ogni cittadina o paese di una qualche importanza, le vie hanno porticati veneti, altane, campanili che sembrano tolti alle isole della laguna. Il leone di San Marco — o quello che rimane dopo le civilizzatrici scalpellature — è dovunque: uno dei più importanti e più belli è quello di Zara, sulla Porta Terraferma, opera insigne del Sanmicheli, di chiaro disegno italiano, gemella perfetta di quella di Vicenza. In numerosissimi casi, l'arte veneziana e veneta venne portata in Dalmazia dagli stessi maestri che le avevano dato. vita sulla laguna e nel Veneto; spesso le loro opere vennero importate in uno o nell'altro senso. Tale duplice afflusso si accentua, specie nel XV e nel XVI secolo, tanto da caratterizzare la planimetria e lo sviluppo delle città dalmate.
Nessuna violenta sopraffazione di protocolli potrà togliere alla Dalmazia la gloria di aver dato all'arte maestri insigni, italianissimi: a Giorgio Orsini, da Sebenico (mi corregga Illyricue se sbaglio), noto anche col nome di Giorgio da Sebenico, dobbiamo la fabbrica della Cattedrale, della Sacristia e del Battistero della sua città natale. Alternò i suoi lavori a Spalato e Zara, con quelli della Loggia dei Mercanti in Ancona: è l'autore del mirabile gruppo della Carità, la più suggestiva scultura pittorica del Rinascimento. Luciano Laurana, zara-tino, nato intorno al 1420, creatore del quasi fiabesco Palazzo Ducale di Urbino, alternò i suoi lavori a Mantova, Pesaro, Gubbio con quelli in Dalmazia. A lui e a Francesco Laurana, altro zaratino, si deve il celeberrimo arco trionfale del Caste! Nuovo di Napoli, eretto tra il 1455 ed il 1458 in onore di Alfonso I, il Magnanimo. Con questi grandi, si fonde l'opera intensa, prima e dopo quell'epoca, di artisti minori, le cui italianissime tracce sono indelebili, a dispetto di qualsivoglia vessazione internazionale passata, presente e futura.
Guglielmo Belli