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Didascalie:
Saluto alla bandiera alla colonia di Stoia, un tempo
Sul campanile di Dignano in Istria
E' stato un lungo pensare quella prima notte d'agosto a Pola. Un pensare più buio della notte, e non per nostalgie del passato, no, per cose mie che nulla avevano a che vedere con l'Istria. Invano l'amica voce del vicinissimo mare inventava per me sonnolenti ninno nanne: il sonno non si lasciava incantare. Mi levai con l'alba ed uscii silenziosamente all'aperto. Una stradicciola sassosa, sconnessa, un bordo d'erba, le rocce, il mare. La tozza costruzione del vicino vecchio macello, dal cui prato circostante si alzava il coro dei grilli in tirate alterne uguali e affascinanti, sembrava un fosco castello medievale abitato da fantasmi. Dalla parte opposta, Stoia. Il biancore dello stabilimento. Qualche lume. In cielo, un unico cirro stava lentamente arrossendo, vergognandosi di aver vagabondato tutta la notte con le stelle «torziolone», che si andavano velocemente eclissando. Ogni tanto un brivido di vento faceva appena raggrinzire lo specchio del mare e le innumeri barche, disordinatamente ormeggiate, si scuotevano per un momento, come il dormiente disturbato da qualcosa, che si rigira sul fianco e prosegue il sonno. Un giorno nuovo, il primo della mia villeggiatura istriana. Dalle ville, dalle case, cominciava ad uscire qualche mattiniero pescatore armato di pinne e di lenze. Lingue straniere. La tentazione di spingermi verso Stoia era grande. Non lo feci perché quello di Stola fu per me un mondo felice. Ragazzetto, vi andavo l'estate come «coloniale diurno» e poi «permanente». Tende grigie, a piramide, tende dell'esercito per quattro posti; poi, quelle più grandi, rettangolari, tende della Croce Rossa.
La colonia a Stoia
Dal capolinea del tram, a San Policarpo, a piedi fino a Stoia, lungo quella polverosa strada assolata. Tanti piccoli cantieri di recuperi navali, l'ingresso della «Serenissima», i lunghi edifici delle stalle militari, dove scalpitavano e ragliavano e nitrivano muli e cavalli e per un lungo tratto di strada eri accompagnato dal pesante odore dello stallatico; la osteria di Calcich, giù giù, cantando, fino al grande cancello verde che veniva aperto dal tozzo e rude custode, uomo senza sorriso, una musoneria che era largamente compensata dal volto sereno di Pietro Dall'Oglio, il nostro indimenticabile direttore, che ci attendeva. Alla colonia ci andavano anche ragazzi paganti. I primi giorni erano un po' schizzinosi, riservati, poi... Mi piaceva dormire in quelle grandi tende, sulle brandire di tela, e rifarmi il letto e bere, la mattina, la tazzona di cacao con tante «sope» e poi, dopo l'alzabandiera, la ginnastica al campo sportivo e il primo bagno, divorare le «zèmisse» con grosse fette di mortadella o con tanta marmellata. Giovanotto, a Stoia vi andai con funzioni impiegatizie. Il guadagno era scarso, ma faceva comodo. Bagni, pini, vitto, alloggio e... una graziosa maestrina dal sorriso pulito e gli occhi dolcissimi. Già, avevo preso una cottarella e, forse anche lei... Aveva il nome della protagonista di una nota commedia assai rappresentata dalle filodrammatiche del tempo. Una sera, assieme ad altri amici, andammo a vedere alla «Sala Umberto» il film «Vally», tratto dall'opera di Catalani, uno dei primi film italiani sonori e parlati. Da allora cominciai a chiamarla «Vally» e lei mi ribattezzò «Hagembach»..
— Cossa fa el Bebi da 'ste parti? — Una voce di donna. Mi volsi di scatto e stavo per gridare «Vally». Mi trattenni in tempo.
— Alora, tossa fa el Bepi da ste parti? — La voce veniva dall'alto. Alzai la testa e vidi, appoggiata al balcone del primo piano, una bella signora che sapevo di conoscere .ma, in quel momento, con la «Vally»...
— No ti me conossi? Ierimo a Modena insieme...
— Oh, scusime, Liliana! Se ti savessi dove che iero in sto momento...
— E dove ti ieri?
— In un ipaesetto de montagna, con un castel. Ballavo in una piazzeta con le montanine e ghe davo un baso a la più bela. Poi, nasseva un mucio de storie e camminavo in mezo a 'na tormenta de neve e ciamavo «Vallyyyyy.. Vallyyvyy..» po', 'na valanga e...
— E chi sana sta «Vally», se no son troppo curiosa?
— Una stella de agosto, de quele che cori per el ciel e no ti sa de dove che le vien né dove che le va... una cara ragazza.
— Per tornar a sto mondo: no ti me ga dito cossa che ti fa da ste parti.
— Son rivado stanote e go dormito in casa de mio fio, proprio soto de ti.
— Ma alora, quela simpatica picia ciacoleta di cinque anni... adesso capisso! El viso no, perché la xe bela, ma per el resto, tuta suo nono!
— Modestamente... e la più grande?
— Do stele, guarda! Mi son qua con mia fia, mio zenero, el nevodin e mia sorela. La tua picia, Francesca, xe diventada grande amica de mia fia. Figurite la la gà invitada a andar zò, a bever un bicer dela sua campagna toscana.
— E tua fia?
— Mia fia ghe ga domandado: «E i tuoi genitori che diranno?» e la picia: «Con loro ho già sistemato tutto io. Non c'è problema». No te digo che ridada che gavemo fato!
— La ga 'na lingua quela... però, Liliana, invece de parlar come Giulietta e Romeo, ,digo, da le tue parti se podaria gaver un cafe e fumar 'na sigareta, sempre che '1 fumo no te disturbi?
E salii da Liliana Del Piero dove, a momenti, fuma anche il nipotino. Caffè, sigaretta, chiacchiere fitte su una terrazza aperta sul mare. Chissà per quanto si sarebbe andati avanti se non
mi fossero venuti a chiamare per dirmi che si andava al mercato. Le macchine! E poi chiasso, colori, nudità mal coperte, papriche, verdura, frutta, tanta roba, tanta gente e tanto dialetto polesan! Sì, in nessuna parte dell'Istria ho sentito parlare il dialetto nostro tanto quanto a piazza delle erbe di Pola. Mentre i miei andavano per i fatti loro, io andavo per i fatti miei, come dire che gironzolavo tra i «bancheti de le venderigole» tutto osservando, tutto ascoltando. Sono tutte poliglotte.
— Sior, la vardi che fighi, co la jossa, ingrumadi stamatina.
— Cossa ghe posso servir? Radiceto de primo taio che col pesse frito... al bacio!
Con le venderigole
Che strano e quale piacere! Le «venderigole» mi rivolgevano la parola in dialetto, senza che io avessi aperto bocca, come se sul mio petto pendesse un cartello con su scritto «Done, son de qua». Volli togliermi la curiosità e chiesi ad una di loro:
— La scusi, signora, come xe che lei, prima, la me ga parla in dialeto, in 'talian, senza che mi...
— E cossa, no se vedi dal muso? Come '1 mio, sior! — Occhio clinico.
Una sosta qui, una parola là, e la mia passeggiata tra i «bancheti» continuava sempre più interessata. Ad un certo punto vidi una donnetta anziana, pienotta, faccia simpatica, capelli ben grigi e tagliati «alla nazzarena», scomparire sotto il banco e riapparire con in mano una mezza bottiglia di un liquido nero. Vino? Bibita densamente colorata di scuro? Bah... Se la portò alle labbra guardandomi di sguincio e, giù, una buona sorsata.
— Saluce, siora!
— A la sua e ... viva noi che semo puti... — E si fermò fissandomi con occhi lazzaroni come attendendo da me il proseguimento del brindisi. L'accontentai:
— ... e m.... per i sposai! —Scoppiammo a ridere.
— Lei la xe sposado, sior?
— Se no, no ghe disevo quel che go dito, ghe par? — Altra risata e poi:
— La xe foresto... de qua?
— Giusto: son de qua e son foresto.
— Alora la xe vignudo a saludar i patri lidi?
Rimasi senza parola. Che una «venderigola» ti venga a parlare
di «patri lidi» è un fatto che può capitarti una sola volta nella vita. Diavolo di donna!
— Signora, ma come xe che sento parlar tanto in dialeto?
— Orno mio, qua, cavadi quei de le papriche e pochi altri, semo tuti dei contorni de Pola... Vincural, Pomer, Vintian, Bagnole, Medolin... e compagnia cantando, la capissi? La vol qualcossa?
— Veramente i mii xe in giro, no so dove, e mi per comprar no son nato.
— Ma per magnar sì! La ciapi sto pero, omagio de la dita Pirelli marca balon! La sentirà che roba: le sete bontà, come i pecati mortali!
Altra risata ed una stretta di mano. Mai mangiato una pera così buona. Raggiunsi mio figlio che ci portò a destinazione, e cioè a casa di un mio carissimo, vecchio scolaro che ci avrebbe ospitati senza limiti di tempo. E poi si dice che l'ospite, come il pesce, dopo tre giorni puzza!
Per una decina di giorni, tanti ne avevo previsti sulla mia tabella di marcia, avremmo abitato a Monte Castagner. Per lei, mia moglie, quel «monte» significava essere servita di... barba e capelli, ma per me «Monte Castagner» è una specie di Monte di Pietà, dove ho lasciato ,dei pegni preziosi, che un misterioso impiegato ha riposto in cassette di sicurezza, munite ciascuna d'una targhetta con su scritti i nomi di via Dante, Petrarca, Lepanto... Bella e grande ancora la casa Sticovich ma, come tutte le vecchie case di Po-la, sembra che abbia la lebbra: l'intonaco cade a brani. Un magnifico vecchio patriarca della famiglia. Alto, robusto, severo nell'aspetto, portava, se ben ricordo, baffi a pizzo alla Bufalo Bill e camminava appoggiandosi ad un nodoso bastone. In gioventù ci sono stato diverse volte nell'appartamento degli Sticovich. C'era un pianoforte e una sera sulla tastiera pose le mani il maestro Smareglia, fratello del più grande Antonio, e quel vecchio signore seppe tener quieti un gruppo di ragazzoni con antichi, deliziosi motivi, noti ed ignoti, ignoti perché suoi. Lo applaudimmo.
Gli amici ci attendevano affacciati al balcone del secondo piano di un'alta casa bianca. Ce ne sono diverse di queste case e tutte dominano «el prà de pisacia», che non c'è più. Case più belle e meno belle, un supermercatino, giardini, la via Sissano, la cappella mortuaria e, dietro a questa, un grande edificio in costruzione. Il mio ospite mi disse trattarsi di un nuovo reparto di ginecologia. E io, a commento: «No xe roba per mi». Ridendo, bevemmo il primo bicchierino di grappa istriana.
Bepi Nider